What’s in a name?

Il nome racchiude la storia di un prodotto, di un brand, di un servizio, ne determina il destino e può comprometterne il successo.

Kevin: quello era il nome giusto. Breve, squillante, acuto, assertivo: garanzia di carisma e distinzione. Così Carlo Verdone in Viaggi di Nozze persuadeva Claudia Gerini nella scelta del nome per il futuro figlio. Per restare in ambito ‘pietre miliari’, nei Mitici (colpo gobbo a Milano) Ricky Memphis rassicurava Claudio Amendola sulla candidatura della giovanissima Monica Bellucci per la banda criminale che si stava formando con una semplice considerazione: ti dico una cosa sola, si chiama Deborah, con l’acca.

Se nella cultura popolare il nome racchiude in sé il destino di chi lo porta, nel branding il nome determina spesso il destino di chi lo sceglie. Un nome sbagliato può compromettere il potenziale successo di un prodotto o di un servizio, vanificando gli investimenti dispiegati nello sviluppo e nel lancio. E, proprio come il destino, anche il nome è difficile da cambiare. Ecco perché il naming si sta sempre più affermando come una delle discipline più rilevanti del branding.

Il naming non è una scienza esatta: non ci sono processi di creazione migliori di altri o formule per calcolare il ritorno economico di un nome efficace. Ma esistono indici che un esperto sa valutare: ad esempio la pronunciabilità, la memorabilità o l’assenza di associazioni negative per il target cui ci si rivolge. È noto che nel 1922 Luisa Spagnoli, geniale co-fondatrice di Perugina, avesse deciso di nominare le sue nuove praline Cazzotti e fu Giovanni Buitoni a convincerla che il nome Baci sarebbe stato più appropriato. Tornando a Deborah, il successo del brand di cosmesi nato negli anni Sessanta dimostra che a dispetto dell’acca il nome funzionava benissimo per la categoria e il target cui era destinato.

La storia di Nuva

Il naming può essere frutto di pure intuizioni creative ma il più delle volte è risultato di metodo e esperienza. Quando un produttore di frutta del Sud si è rivolto a CBA per rinfrescare l’identità del proprio prodotto, aveva come prima necessità la sostituzione del nome precedente nato da un’intuizione ma non adeguato ai mercati internazionali. Il processo di creazione è iniziato dal racconto appassionato dell’imprenditore sulla propria terra e le proprie radici. Questo ha offerto lo spunto per individuare le aree semantiche di ricerca: l’uva, il Mediterraneo, l’allegria della frutta. Aree coerenti al valore dell’italianità, rilevante per il mercato internazionale, ma credibili anche per gli italiani. Ogni area è stata indagata dal punto di vista lessicale, producendo centinaia di radici e fonemi poi combinati in parole. L’idea era racchiudere in un suono la semplicità e la dolcezza del frutto che veniva offerto al consumatore così come era stato creato dalla Natura.

Nuva Image 2

Uno dei principali problemi del naming è la disponibilità giuridica. L’anteriorità è materia da legali esperti ma il primo screening è imperativo per evitare che il cliente si innamori di un nome chiaramente inutilizzabile. Con 3 milioni di marchi registrati e 54.600 domande solo nel 2014 (quasi 150 al giorno!), il Registro dei Marchi è il nemico numero uno di ogni namer. In questo screening “cade” di norma gran parte dei nomi creati. Così i nomi sono stati filtrati all’anteriorità. In 21 sono sopravvissuti: quasi tutti nomi di fantasia slegati da termini di significato compiuto. Alla fine la scelta si è basata soprattutto sulla semplicità: Nuva. Gli inglesi avrebbero colto il richiamo al termine “new” e avrebbero apprezzato la sonorità italiana; gli italiani avrebbero ricordato facilmente un nome così chiaro e sincero, che aggiungeva al frutto una sola lettera. La reazione dei mercati è stata molto positiva e ha risolto i problemi riscontrati con il nome precedente. Ogni nome ha il suo destinatario ma i problemi sono comuni: distintività, comprensibilità, utilizzabilità commerciale. I nomi che superano queste prove sono potenziali ma questo non basta a determinarne il successo. Il contesto, il canale, la qualità del prodotto, la coerenza della comunicazione e altri ingredienti sono altrettanto determinanti. Un nome giusto non può risolvere tutto. Di certo, un nome sbagliato non aiuta.

Cristiano Mauri, Direttore Creativo

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