Le parole sono importanti

Sembra sempre più difficile evitare gli inglesismi. Brieffare, endorsare, matchare: è davvero impossibile trovare l’alternativa giusta ai termini stranieri più inflazionati?

Sono passati 25 anni: le parole non hanno perso importanza e la sua reazione è quantomai attuale. È sempre più difficile, infatti, leggere un articolo o ascoltare un servizio televisivo che non contenga termini stranieri, inglesismi e storpiature di una qualche lingua straniera. Chissà cosa succederebbe se Michele Apicella partecipasse a un qualsiasi meeting di briefing tra il project manager di un’agenzia di branding e il marketing manager di una azienda? E chissà quanti schiaffi mi darebbe per aver scritto questa frase?

Il branding e il marketing nascono nel mondo anglosassone, perciò è normale che molti dei termini utilizzati da queste due discipline siano inglesi. I loro stessi nomi sono stati adottati nella nostra lingua senza traduzione. Pensare di tradurre marketing in “strategia dei mercati” o branding con “progettazione della marca” sarebbe infatti da una parte strano, dall’altra riduttivo.

Non bisogna scandalizzarsi per questo, ma forse Michele Apicella – e non solo lui – avrebbe qualcosa da obiettare se sentisse che un nuovo progetto di brand stretching è passato dalla fase di briefing, attraverso vari brainstorming, a una serie di refinement e di debriefing e successivamente ad un test in cui un panel di consumatori ha validato la big idea del marketing e ora deve essere presentato con dei meeting cascade per allineare tutti sugli output rispettando le deadline. All’inizio servirebbe un vocabolario, poi ci si abitua.

Bisogna comunque considerare che le lingue si evolvono, anche per contaminazione, e che i neologismi nascono continuamente, in ogni parte del mondo. Senza dimenticare però che parlare correttamente e contemporaneamente più di una lingua, gestendo fili di pensiero diversi e potendo spendere la ricchezza di due vocabolari, è sicuramente segno di maturità e intelligenza. Molti termini di uso comune nella lingua italiana sono stati accolti da altre lingue, e nessuno li trova strani. Sport, computer, toast, autobus, brioche: come li chiameremmo in italiano? Tuttavia un conto sono i neologismi e le lingue straniere, un altro conto è l’itanglese. Tornando a Michele Apicella, chissà come reagirebbe se sentisse i verbi endorsare (dall’inglese “to endorse”, in italiano si dice “supportare”), strecciare (to stretch, estendere), scrinare (to screen, selezionare), draivare (to drive, guidare), mecciare (to match, abbinare), ciallengiare (to challenge, sfidare). O gli aggettivi, adocchizzato (fatto ad hoc), gastronomizzato (preparato come in gastronomia), editato (intendendo “modificato”), impattante (di impatto). Io li ho sentiti tutti, ben più di una volta, e ci sorrido sopra.

L’italiano, sebbene non abbia coniato i termini del marketing e del branding, è la quarta lingua più studiata al mondo e offre un vocabolario sufficientemente ampio dentro cui trovare l’alternativa giusta per molti termini stranieri abusati. Senza apparire nostalgici o conservatori, e senza prendere a schiaffi nessuno, ma coscienti che “le parole possono essere paragonate ai raggi X; se si usano a dovere, attraversano ogni cosa” – e citando Il mondo nuovo di Aldous Huxley posso chiudere facendo la figura della persona colta.

Giacomo Cesana, Creative Director

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