L’attivismo è per chi ci crede (davvero)

Prendere posizione si può. Coraggio, visione e coerenza sono gli ingredienti fondamentali.

Questioni spinose e divisive, legate alla sfera politica o morale, hanno spesso rappresentato dei tabù per le grandi aziende. Il rischio di contraccolpi negativi nel farsi portatori di messaggi critici o polemici ha molto spesso trattenuto brand e imprenditori dal prendere posizione pro o contro una determinata causa.

Qualcosa è cambiato.

Uno dei casi più eclatanti è quello di Nike con la campagna del quarterback Colin Kaepernick, simbolo della lotta contro l’oppressione degli afroamericani, che dal 2016 è stato escluso dalla National Football League dopo aver protestato contro le violenze della polizia sui giovani afro-americani, rimanendo seduto durante l’inno nazionale. In seguito alla campagna sono comparsi video di persone che bruciavano le proprie Nike, ma anche, a quanto pare, una maggioranza di feedback positivi su tutti i social con un bilancio finale in termini di visibilità, molto rilevante.

NIKE

Un altro esempio importante di “presa di posizione” rispetto a temi politici è la campagna “Rainbow is the new black” prodotta da Netflix lo scorso giugno in occasione del Gay Pride di Milano, dove la stazione metro di Porta Venezia è stata tappezzata con i colori dell’arcobaleno e le foto di molti protagonisti omosessuali delle serie tv Netflix. Qui siamo di fronte non solo al sostegno della causa per il riconoscimento dei diritti della comunità LGBTQ, da sempre evidente nel palinsesto dell’offerta Netflix, ma anche e soprattutto la volontà di essere parte di un evento come il Pride che era stato duramente attaccato dal Ministro alla Famiglia italiano, assumendolo a bersaglio diretto della campagna.

NETFLIX

Non mancano gli esempi di chi prova a fare questo passo ma fallisce: Pepsi è stato duramente criticato per uno spot video in cui la supermodel Kendall Jenner, in mezzo ad una “manifestazione di protesta”, porge una lattina di Pepsi ad un poliziotto portando così la pace tra i due schieramenti. Le critiche si sono abbattute con violenza sullo spot, che sembra sfruttare e banalizzare l’immaginario del movimento Black Lives Matter per il proprio tornaconto economico.

Altro esempio finito piuttosto male: il magazine di musica Rolling Stones che con un appello ha preso posizione contro le politiche migratorie del Governo appena insediato a luglio, dividendo molto l’opinione pubblica, per poi deludere tutti con la scoperta che molti firmatari dell’appello erano stati inseriti senza nemmeno saperlo.

PEPSI2

Al di là del successo o meno di queste campagne è interessante capire perché proprio oggi i brand abbiano cominciato a prendere posizione.

Un primo motivo appare legato al ruolo sociale che i consumatori attribuiscono alle aziende private: sempre più persone si aspettano che il cambiamento sociale debba provenire da loro piuttosto che dalle istituzioni pubbliche. L’88% degli americani pensa che le aziende abbiano effettivamente il potere di produrre cambiamento sociale (SONAR, 2016). La fiducia nelle imprese, spesso contrapposta alla scarsa accountability delle istituzioni pubbliche, è collegata alla percezione di poter influenzarle con i propri comportamenti d’acquisto. Un’altra indagine infatti riporta un dato clamoroso: nel 2017 il 50% degli americani ha partecipato ad almeno un boicottaggio nell’arco dell’anno, con un incremento del 20% rispetto al 2016 (K. Endres, C. Panagopoulos, 2017). Questo mutamento di percezione sul ruolo sociale dei brand, contrario alla convinzione classica che etica e business vadano in direzioni opposte, ha portato alcuni economisti come Chris Ladd a parlare di Social Capitalism: un sistema economico in cui la gente considera l’acquisto non come uno scambio di beni ma come un voto. Il terreno di competizione tra i brand sembra essersi esteso alla politica, portando le aziende ad avere una posizione sulle questioni sociali in modo tale da “essere votati”.

Un altro motivo è legato al contesto politico stesso che vede i brand costretti a prese di posizione di fronte a politiche governative radicali o estremamente divisive, che spesso impattano direttamente anche sui business delle aziende come accaduto per il “Muslim Ban” voluto da D. Trump. Nel gennaio 2017 il divieto di accesso negli States per i cittadini di 7 nazioni a maggioranza araba, ha visto una dura reazione pubblica dei giganti tech della Silicon Valley che hanno tra la propria forza lavoro i migliori cervelli provenienti da tutto il mondo. Google, Facebook, Apple, Uber, Microsoft, Netflix e molti altri, hanno condannato il provvedimento facendo riferimento non solo alle conseguenze negative per lo sviluppo delle proprie aziende ma anche ai principi fondamentali di inclusione e apertura che hanno reso gli USA la potenza che oggi è.

MUSLIM BAN

In questo contesto, idealismo e opportunismo di marketing si intrecciano senza soluzione di continuità e non è sempre facile dire se e quando è opportuno per i brand rischiare di esporsi. Bloomberg ha quantificato in 43 milioni di dollari il valore dell’esposizione mediatica generata in 24 ore,dopo che lo spot Nike di Kaepernick è apparso su Twitter. Questo anche se il presidente degli States D.Trump l’ha definito uno spot che “dà un terribile messaggio”. Certamente quando Nike ha preso questa decisione l’ha fatto con coscienza di causa, conoscendo la propria base di utenti – in maggioranza under 35, di diverse origini etniche (NPD Group) – e puntando a far breccia su di loro, in classico stile Nike che dagli anni ’70 ha sempre puntato su atleti dirompenti.

È qui forse la chiave di volta che distingue i casi di attivismo politico di successo da quelli fallimentari. “In classico stile Nike” significa che il brand ha preso posizione in modo coerente con sé stesso. Perché Kaepernick “just did it”, credeva in qualcosa e l’ha fatta, ad ogni costo.

Per i brand è possibile fare “politica” purché prendano posizione in modo coerente con la propria purpose, la propria ragion d’essere nel mondo rispetto alla società. In un contesto dove la sfiducia nelle istituzioni è ai massimi livelli e i governi attuano politiche divisive e polarizzanti, per i brand sembra aprirsi un nuovo spazio d’azione dove però non sempre tutti hanno qualcosa da dire.

L’attivismo politico deve essere allineato con valori, comunicazione e visione del mondo dei brand.

Francesco Saviola, Strategic Designer at CBA

Condividi

L'articolo